22 gennaio 2014

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Shanghai. Fa freddo. Umido. E' ora dei gatti, dei topi, della notte. Fumo e cerco dell'acqua potabile in una di quelle oasi cinesi chiamate Family Mart 24h. Freddo penetrante. Sono stanco. Il corpo mi sta abbandonando, ma la mente, la mente, quella no. Viva, elastica, capace di voli notturni che da secoli vengono cantati. L'associazione, il volo, l'unione di due pensieri mi portano a casa. Non mi ricordo che strada abbiano deciso per me. Come incoscienza. Pura. Il pensiero di sei amici, al liceo, d'inverno e il ricordo della lezione, fatta oggi, sulla difficoltà filologica e filosofica di spiegare a dei cinesi la differenza tra studiare e imparare. Mi ricordo quanto era bello imparare e non studiare. Mi ricordo quanto tutti insistessero sulla netta, inesorabile, accecante superiorità dello studiare sull'imparare. Mi ricordo quanto quei sei ragazzi, non ancora maggiorenni, urlassero il loro totale dissenso su tale superiorità. Un urlo muto, fatto d'azione più che di parole. Un urlo eroico potrei dire.
Era mattina presto e la scuola emanava dai muri spessi e di colore giallo vampate di gelo. Tutto tranne che invitante. Masse di ragazzi e ragazze e professori e professorini, tutti davanti al portone di legno. Nero. Enorme. Invalicabile se non con una buona dose di follia o di cieca sottomissione. Sei ragazzi si guardano. Si fanno un cenno di saluto. Nessuno parla. Più giovani si è e più difficile è svegliarsi la mattina. La bocca impastata e gli occhi vitrei dal freddo. Voglia poca. Voglia di studiare intendo. Dopo un dieci minuti per ambientarsi ci si accorge che la notte ha nevicato. La neve era ovunque. I primi a realizzarlo questi sei. Questo Fe, questo Fa, questo Ug, questo Da, questo Pi e questo Ma. I primi e gli ultimi a realizzare davvero cosa significasse quel dono di neve. Non era affatto un giorno da dedicare allo studiare bensì all'imparare. Era giorno da fare sega. 
Nessuna parola, è bastato un ghigno, quasi malefico e gli occhi si riaccesero, sciolsero via il gelo e il sonno. La giornata era loro. Tutta. Almeno cinque ore. In una città come Treviso, d'inverno, con la neve, non c'è miglior posto che le antiche mura della città. Poco importa sapere che tali mura si trovino proprio accanto al liceo in discussione. Il problema non esiste. Non c'è. C'è la neve. Che altro può importare a un ragazzo sano di mente? 
Andare sulle mura era d'obbligo. Con la loro camminata baldanzosa, altezzosa, boriosa, la camminata da "so tutto io", sembrava volessero urlare alla città il loro sdegno allo studio e la superiorità della neve. Volevano farsi notare, volevano che la gente capisse, che la scuola, orrore giallo, capisse che a loro, a loro sei, le regole non andavano. Quali regole? Le regole, tutte. Urlavano noi siamo qui, adesso che volete farci?
Quanto erano belle quelle mura. Non si è veri trevigiani se non si è mai limonato su quelle mura. Un pò come non sì è veri cinesi se non si è scalata la Grande Muraglia. Divergenze ideologiche. 
Dopo la camminata-parata sulle mura il caffè era necessario e dopo il caffè...dopo il caffè i sei abbracciavano l'oblio euforico dello spinello. Un'euforia mai più ritrovata. Una spensieratezza andata. Una ribellione cieca rimpianta. Un coraggio eroico diluito dal mondo e dalle persone, da persone che non sono quelle sei.
Ora molta della mia forza e del mio coraggio di vivere la devo a quelle persone. Con quelle persone ho imparato tantissimo e studiato pochissimo. Con loro ho iniziato a capire da che parte stare. Dalla parte, sempre e comunque degli eroi, perchè non siamo ai tempi di Ettore o di Achille, ma di eroi ancora ce ne sono e le qualità che fanno un uomo un eroe non sono cambiate. 
buona notte amici miei.

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